15 febbraio 2010
Mi sveglio nel silenzio di questa casa dove c’è molto da rattoppare, molto da restaurare. C’è anche della muffa in qualche angolo. Disordine in quasi tutte le zone di quello che è il mio territorio. Mi chiedo se sto parlando della mia casa o della mia vita.
Mi sorrido dentro per la gratitudine ai termosifoni, che da bravi si sono svegliati un paio d’ore prima di me, che preparo il caffè. E poi lo bevo calmo.
Per la strada penso che oggi farò il turno da solo. E penso che forse dovrei uscire al primo casello e tornare indietro, perché non so se ce la faccio.
Poi ricordo che ho un impegno (devo consegnare a Gomitolo del materiale per Nuvola) e – porcazzozza! – mi tocca andare. Ma posso sempre starmene fuori a fumare e ad ingannare il tempo.
Ma poi ricordo un’altra cosa, più tassativa della prima: lunedì scorso avevo promesso ai pazienti di Dialisi che al prossimo turno (ovvero quello di oggi) mi sarei fermato a lungo da loro.
E allora vado.
E sento come uno sperone di roccia a cui aggrapparmi anche Maria (la nostra affezionata rom) che come al solito mi chiede i soldi per la brioche. Afferro con la fiducia di un bambino anche lo sguardo amichevole di Cinzia, che mi saluta dal casottino-cassa del parcheggio. Non dò più di tanto peso all’espressione di circostanza di persone che per mesi ci avevano espresso solidarietà, ma che proprio adesso che ci possono aiutare concretamente… si sono un po’ “irrigidite”. E’ la vita.
Entro in ospedale e mi sento un fantasma. Quasi spero di passare inosservato. Ho bisogno di arrivare in fretta in Dialisi.
E allora quasi corro, non so con quale faccia tra cappello e collo (avrei voluto sdoppiarmi e vedermi…)
Sono a metà del lungo corridoio e sto per mettere il silenziatore al telefono, quando mi chiama mia mamma: ieri è morto per infarto Alberto, mio coetaneo e mio datore di lavoro per qualche anno, un po’ di tempo fa. Un rapporto di stima e di rispetto ci legava e io ingoio questo rospo spinoso e amaro e vado avanti per il corridoio, mentre lo xilofono dell’anima mia suona note che potrebbero essere di Berio (ascoltare per comprendere… insomma non è Mozart… ma nemmeno Wagner…).
Chiamo Pediatria e avverto che oggi non mi vedranno, ma in caso di urgenza mi possono trovare lì, in Dialisi… E poi mi lascio andare ad un abbraccio di quasi tre ore. Accolgo a mani aperte l’affetto di persone che mostrano di capire il mio stato d’animo.
Stanza dopo stanza mi sento sempre più sereno e penso che ormai ce l’ho fatta.
Tutto qua? Sembrava chiedermi la mia coscienza clauna… Certo! Gli rispondevo io… che cacchio vuoi di più?! Dai, l’ultima camera e poi hai fatto il tuo buon lavoro!
E nell’ultima camera mi aspettava Pietro. Non sono andato subito da lui, perché intorno gli stava armeggiando un’infermiera con cuffia e mascherina. Anche Pietro aveva cuffia e mascherina: e intuivo che il carnevale non c’entrava una mazza…
Allora mi fermo a parlare con altri pazienti e ogni tanto butto un occhio e un orecchio verso il letto di Pietro: l’infermiera sta ingobbita sul suo braccio destro e Pietro si lamenta per il dolore. Io ho il magone… che diavolo faccio?! Pietro si lamenta ancora e non mi sfuggono i suoi occhi che sbucano sopra la mascherina: ma io sono quasi di sasso e me la sto facendo sotto (davvero un bel tutor! ci sarebbe da girare un video e mostrarlo ai congressi tra un lucido e un brainstorming!).
Poi è quasi come se mi ricordassi del perché sono lì e decido che non me ne frega niente se sverrò o se vomiterò. Qualsiasi cosa farò, la farò con il cuore.
E con lo stomaco.
E allora chiedo a Pietro: posso fare qualcosa per te? Posso farti un balletto? Una ruota? Cantare “Strangers in the night”?
Mi sono precipitato accanto a lui e piantato i miei dannati occhi su quel martoriato braccio. E gli ho stretto la mano. E le nostre mani sudavano.
E abbiamo parlato di mogli, di figli, di amore e di solitudine. Di forza di andare avanti. E di 15 anni di sofferenze.
Pietro mi ha ringraziato.
Ma io non lo ringrazierò mai abbastanza.
Vi voglio bene.
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