Un paziente di dialisi racconta
UN FANTASMA BUONO IN CORPO
Gran bella cosa il sistema pensionistico: si guadagna il necessario per vivere, senza più dover lavorare, e si è liberi tutti i giorni dell’anno. L’11 gennaio 1994; mi ero prepensionato a 56 anni, per lavorare in proprio: reportage di viaggio e forse libri. Quel giorno mi sentivo ancora giovane, in gran forma e, libero dalla schiavitù e dalle gerarchie di un cattivo ufficio, pregustavo un’era gioiosa. Il 13 gennaio, al terzo giorno della nuova vita da pensionato, a Firenze per una caduta in bicicletta inondai di sangue il Viale Volta e fui ricoverato con frattura del setto nasale; fu solo l’annuncio di quel che sarebbe diventata la mia vita da pensionato.
Dimentichiamoci le cause dell’insufficienza renale; il 7 aprile di quell’anno in una periodica visita di controllo come donatore di sangue, all’ospedale di Marino (Roma) il medico dell’Avis mi trovò delle emazie, del sangue nelle urine, appene sotto il limite d’allarme; quindi non mi allarmò e mi rimandò ad una visita al mese successivo. Quando al suo posto trovai la sostituta, uno schianto di bionda, troppo carina per non sospettare, che fosse stata agevolata negli esami di medicina; perché trovò il mio sangue scarso di ferro, pessimo, ma si disinteressò delle cause e mi rimandò via senza alcuna prescrizione. Non avvertivo alcun dolore; tranquillo e stupido facevo vita normale, addebitando al passare degli anni la maggior fatica durante le mie bibiclettate settimanali. Invece il male progrediva subdolamente, ma io ero robusto e non lo sentivo.
Ero in montagna, quando complice un fungo non più fresco, si bloccò la diuresi ed il 7 agosto giunsi all’Ospedale di Tolmezzo (Udine) con la creatinina a 19 (di norma non si deve superare il valore 2); cominciai le dialisi e la sofferenza della fase acuta, quando per effetto dell’azotemia ogni bevanda diventa disgustosa; a regime erano 3 emodialisi di 4 ore alla settimana.
Condannato agli “arresti ospedalieri”, il modo di riavere la libertà era il trapianto, difficile da ottenere, 15 anni di attesa media, per estrema scarsità di donazione di organi. Mi battei per la legge che facilitava le donazioni; con cartello e volantini nei giorni liberi dalla dialisi presidiavo la piazza di Montecitorio; superato l’ostracismo ispirato dai baroni delle cliniche, la legge fu finalmente approvata e fui premiato. Ero a Firenze quando arrivò dall’Ospedale di Udine la telefonata della disponibilità di un rene compatibile; corsa in taxi nel buio dell’alba, dall’aereoporto di Peretola il Falcon dell’Aereonautica Militare mi portò a Ronchi dei Legionari, da dove un’ambulanza mi condusse ad Udine; il 23 settembre 1996 ebbi il trapianto renale.
Ci sono medicine prodigiose e dannose al contempo, come il cortisone, che contrasta il “rigetto”, quando l’organismo contrasta l’organo come “intruso”. Seppi solo che il rene donatomi era di una donna ed arrivava da Milano; era compatibile, ma fece subito tante storie, non voleva saperne di collaborare: le 2 settimane di normale degenza post-trapianto per me divennero 2 mesi. Feci delle congetture; mi immaginai la donatrice una signora benestante, marito con i danè e serva filippina, dedita alla canasta con le amiche, affatto lavoratrice; per giunta leghista, non poteva collaborare con un “romano de Roma”. Il rene trapiantato funzionava, ma creava sempre problemi, per un periodo anche un rigetto ogni mese; a fine 2001 ne avevo registrati 12. Quando c’è la crisi di rigetto, al giorno dalle pillole da 8 milligrammi di cortisone si passa a 2 flaconi da 500 milligrammi via flebo. Il cortisone consuma muscoli e tendini; se ne ruppe uno sulla spalla e con la sinistra non mi riusciva più di versarmi da bere. Il cortisone toglie anche il calcio dalle ossa, che diventano fragili; continuavo una vita molto attiva, quasi sportiva, ed in 15 anni ebbi 7 fratture; putroppo il calcio tolto dalle ossa finisce nelle vene, dove il sangue passa con sempre maggiore difficoltà. Fu così che nel 2009 vidi 2 dita del piede destro farsi scure; era gancrena e me le amputarono. Allora il sangue fino al piede arrivava; ma poco dopo mi dissero che c’era da amputare la gamba e mi indicarono a metà tra ginocchio e caviglia. Mi amputarono ed i chirurghi se la videro brutta, perche le vene erano calcificate, dovettero spostarsi più su e tagliarono appena sotto il ginocchio.
Fui edotto, che avrei sentito dei dolori in quello che è chiamato “arto fantasma”; la gamba non c’è più, ma le terminazioni nervose, troncate, restano attive e si fanno sentire anche molto. Mi dissero che i dolori dell’arto fantasma durano almeno un mese: balle; passavano i mesi ed i dolori continuavano, non costanti ma a tratti, con pruriti, strani scatti isolati e tremiti in serie; quella gamba era ancora parte del mio corpo.
Non c’era, ma si sentiva, un vero fantasma. In particolare entrava in funzione, quando subivo un dolore, quando all’inizio del trattamento di dialisi l’infermiere infila i 2 grossi aghi (1 millimetro di diametro) uno nella vena e uno nell’arteria, per far circolare il sanghe nella macchina che lo depura: Solo alla vista degli aghi, la gamba fantasma si mostrava preoccupata, ovvero addolorata; il dolore fantasma era massimo al momento della puntura, con l’evidente intento e l’effettivo risultato di distrarmi dal dolore reale, di farmelo sentire quasi sminuito, sovrastato dal dolore fantasma, che era più forte, ma meno preoccupante perché inventato. Era un effetto dolorifico “stereo”, un’armonizzazione. Finita la fase delicata, la gamba fantasma si acquietava e riprendeva, però in tono minore, nella meno dolorosa fase dello stacco, dell’estrazione dei grossi aghi; comunque ogni volta che medici od infermieri mi toccavano, mi pigiavano in qualche parte, la gamba fantasma si risentiva, protestava.
Quasi 4 mesi dopo l’amputazione ebbi la protesi: un piede di plastica, un tubo di ferro nero in funzione di osso, poi ricoperto di gomma piuma a creare l’effetto pelle, una doppia guaina di plastica, che s’innesta sul moncone. Ovviamente la protesi stringe un po’ sul moncone, dove fa un tutt’uno rigido come una gamba vera; l’effetto fantasma era sentirsi tutta l’inesistente gamba, fino al piede, come se calzasse uno stivale alto e stretto. Avevo la gamba artificiale, con l’aiuto del bastone potevo camminare; anzi con l’aiuto di 2 canadesi (bastoni non ragazze), perche la gamba sinistra, quella autentica mia originale, sciancata ed accorciata per una frattura di femore non operata, era anch’essa bisognosa di sostegno. La gamba fantasma non cambiò usanze, anzi si fece ancora più sensibile; da mettersi a dolorare quando, chiacchierando con un amico dializzato, seppi da lui di dolorosi piccoli interventi subiti: era una partecipazione fraterna, qualcosa di commovente.
Succedevano fatti inspiegabili e ridicoli; la sera per andare a letto mi toglievo la protesi; dopo tanta pressione, il moncone libero si rilassava e m’infilavo piacevolmente sotto le coperte. Il moncone finiva appena 2 centimetri sotto il ginocchio, eppure capitava di avere il piede freddo; non il piede vero, come capita ai vecchi per problemi di circolazione, ma il piede fantasma, il piede inesistente!
Era patetico: nell’intimità del letto, di notte, quando gli arti inferiori sono inattivi, in riposo, non dovendo più sostenere la fatica della giornata ed il peso del corpo, quell’arto fantasma, col suo piede freddo, voleva ricordarmi che lui c’era; voleva darmi l’impressione, farmi credere, che io avessi ancora le mie 2 gambe, che io l’indomani mi sarei alzato ed avrei camminato come tutte le persone normali, come fossi sano. Grazie arto fantasma; passai dolcemente dal dormiveglia al sogno di essere sano e libero, libero di camminare, anzi di correre, di correre contento, come quando si corre perché piace correre.
Pietro Cipollaro